Esasperati dalle gare: ecco perché i ragazzi abbandonano lo sport

L'attività agonistica non è consigliata prima dei 14-15 anni, ma i piccolissimi sono già osservati dalle società sportive prima e dai genitori, come possibili futuri campioni. Nuotatori, ginnasti, danzatori, ma anche cestisti, pallavolisti e in primis calciatori: le loro abilità sono sviluppate sin dai primi anni di età e testate in gare, piccole competizioni, campionati, con tanto di riconoscimenti, medaglie e coppe. Se si vuole iniziare uno sport verso i 10 o 11 anni, si è considerati già troppo vecchi rispetto ad altri che già dall'asilo frequentano campi e piscine.

Sul piano educativo il bambino è sollecitato a vedere gli altri come rivali e non come amici, a percepire le proprie capacità come qualità da sfruttare solo per se stessi. Inoltre, da piccoli, non si hanno ancora le capacità psicologiche adeguate per sopportare le sconfitte, con gravi danni alla propria autostima, quindi, se non si ha la fortuna di avere genitori o allenatori equilibrati, il rischio è di rimanere traumatizzati.

Il clima di competizione affrontato anche sei giorni alla settimana, gare comprese, non spinge se stessi a migliorarsi e imparare le regole del confronto con gli altri, anche in situazioni di tensione. Le gare sono presentate da allenatori e dai ragazzi per giustificare le numerose ore di allenamento di fronte ai genitori e agli insegnanti più dubbiosi.

La competitività esaspera l’atleta, a volte inconsapevolmente, finché d'un tratto risulta evidente, e spesso in modo doloroso, di fronte a un evento traumatico, quale l'esclusione dalla squadra, per motivi di convenienza dell'allenatore e della società sportiva.

Gli allenatori hanno il dovere di formare le giovani generazioni diffondendo i valori educativi dello sport, allenando i ragazzi al rispetto, all'accettazione della sconfitta e dei propri limiti.